PICASAS

Per Balzac “l’odio senza desiderio di vendetta è un seme caduto sul granito”. “Distruggete tutto ciò in cui avete creduto finora,” grida Markuse, “vi sembrava granito e non era che pietra pomice”. “Qual è il male che scalfisce il granito del tuo cuore?” si chiede Alda Merini. C’è infine chi dichiara: “Voglio estrarre del granito di verità su cui i miei figli ancora non nati possano basarsi saldamente”.

Per gli scrittori, i poeti, i filosofi e perfino per Barack Obama – sua è l’ultima citazione –, il granito è l’elemento più duro che esista in natura, qualcosa di solido e inamovibile.

Eppure il granito si muove. A volte da solo, e allora i geologi parlano di massi erratici, come quelli delle prime pionieristiche estrazioni nel Vergante, ai tempi di San Carlo Borromeo; più spesso, ovviamente, il granito si sposta in conseguenza del lavoro dell’uomo, e in questi casi può arrivare davvero lontano. All’Opéra di Parigi, per esempio. O a Columbus Circle, New York, proprio di fronte a Central Park. A Rio de Janeiro e a Buenos Aires – dove fa da basamento alle statue equestri di due generali –, ma anche verso est, a Belgrado, a Calcutta e a Bangkok. C’è, insomma, un pezzo di Baveno in quasi ogni angolo del mondo.

Picasas racconta un’epopea che parte dalle rive del lago Maggiore e si ramifica lungo le vie di terra e d’acqua attraversate nei secoli dal granito rosa. Tutto comincia dal suono antico di un corno che rimbomba nella cava. Poi l’esplosione di una carica, il fragore del monte che si sgretola, i colpi degli scalpellini – i picasàs appunto – che sbozzano la roccia con i rintocchi dei loro attrezzi acuminati. La forma che il granito rosa assume alla fine – colonna, arco, lastra, piedistallo –, determina la natura dell’ultimo suono. Potrà essere l’acuto di un soprano a Parigi, lo scrosciare dell’acqua in una fontana a Roma, il frastuono della parata del Columbus Day a New York, lo scalpiccio degli zoccoli di un cavallo in America Latina, il fruscio dell’abito color zafferano di un monaco buddhista a Bangkok.

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